La mente del pittore si debbe al continuo trasmutare in tanti discorsi quante sono le figure delli obbietti notabili che dinanzi gli appariscono
(Libro di Pittura, §53)
Leonardo da Vinci conferisce una sublime connotazione immaginifica alla riflessione e all’indagine condotte sin dall’inizio del suo percorso intellettuale sull’universo naturale. Come ampiamente teorizzato nell’apografo postumo del Libro di pittura, compilato dal fedele allievo ed erede Francesco Melzi a partire dai manoscritti autografi ai quali aveva diretto accesso (in gran parte perduti e collazionati nel Codice Urbinate Lat. 1270 della Biblioteca Apostolica Vaticana), la capacità dell’occhio di porsi come «la finestra de l’human corpo, per la quale la sua via specula e fruisce la bellezza del mondo» (Libro di pittura, §28), consente all’«ingegno del pittore» di operare «a similitudine dello specchio, il quale sempre si trasmuta nel colore di quella cosa ch’egli ha per obietto» (ivi, §56). L’occhio è cioè un tramite, una “finestra” del corpo umano aperta a godere della bellezza del mondo ma anche a rifletterla come in uno specchio, in grado di assorbirne forma e colori: l’abilità del pittore, tra tutti gli uomini, consiste però nell’amplificare il fenomeno del rispecchiamento, facendone – al di là di una mera e meccanica operazione di duplicazione speculare – una visionaria “trasmutazione”, capace di generare uno sdoppiamento della realtà.
«La deità ch’ha la scienza del pittore fa che la mente del pittore si trasmuta in una similitudine di mente divina» (ivi, §68): degna di “deità” (divinità) si dimostra, quindi, la “scienza” del pittore, perché mediante essa egli può confrontare il proprio ingegno persino con la creazione divina.
Nell’assimilazione della realtà ottenuta attraverso l’esatta esplorazione conoscitiva ottico-sensoriale, il pittore (che è anche filosofo naturale e artifex) è perciò per Leonardo in grado di introiettare le forme naturali, per poi ri-plasmarle in un esercizio di invenzione creativa da cui far scaturire una “seconda natura”; il pittore è cioè un «fintore» (ivi, §177) e svela così le potenzialità “demiurgiche” del suo operare.
In un brano divenuto giustamente celebre e significativamente intitolato Come il pittore è signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose (ivi, §13), Leonardo chiarisce, infatti, che «ciò ch’è ne l’universo, per essenzia, presenzia o immaginazione, esso l’ha prima nella mente e poi nelle mani, e quelle son di tanta eccellenzia, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose». Il potere del pittore risiede, cioè, nella sua facoltà di contemplare, in essenza, presenza o immaginazione, l’universo nella sua totalità (vale a dire, non solo per la sua esteriore “presenza” ma anche per la sua insita e astratta “essenza” e persino secondo la pura finzione di una “immaginazione” di esso prodotta dalla mente): la ri-creazione di una “seconda natura” è resa possibile proprio da quel passaggio dalla mente alle mani (in cui si coniugano le due complementari accezioni – concettuale e artigianale – della professione pittorica), attuato mirabilmente mediante l’ausilio del disegno, assumibile a “verbo figurativo” di Leonardo. In esso, infatti, le immagini si concretizzano e manifestano nella istantaneità e progressività del loro stesso prodursi nella sua mente. Il disegno, dunque, è non solo (e non tanto) il concreto e materiale medium grafico attraverso cui dare rappresentazione di quanto si osserva, nella compilazione potenzialmente sterminata di un repertorio del conoscibile o, come pure è stato detto, di un “archivio della visibilità”, ma anche (e soprattutto) un progetto totale di indagine e interpretazione, così dell’universo esteriore, come del mondo interiore dell’artista-scienziato.
La vista, tuttavia, non è intesa da Leonardo soltanto come mero tramite sensoriale. Si consideri la sua orgogliosa difesa della pittura, consegnata al cosiddetto “Paragone” delle arti (che occupa tutta la prima parte del Libro di pittura) e affidata a un’impegnativa rivendicazione della sua dignità scientifica, perché basata su presupposti matematici e geometrici, e filosofica, in quanto giunge alla configurazione di una concezione dell’uomo e del mondo, oltre che alla loro rappresentazione. La pittura merita agli occhi del maestro di essere nobilitata al rango delle arti “liberali” (in grado di rendere l’uomo libero, secondo un possibile spunto etimologico da Vergelio, un classico della pedagogia), anziché essere considerata un’arte “meccanica” ovvero puramente manuale e artigianale. Al fine di comprovarne la superiorità rispetto alla poesia, Leonardo ricorre a una «tal proporzione dalla scienza della pittura alla poesia, qual è dal corpo alla sua ombra derivativa», osservando che, mentre «l’ombra di tal corpo almeno entra per l’occhio al senso comune», «la immaginazione di tale corpo non entra in esso senso ma lì nasce, in l’occhio tenebroso» (ivi, §15). Inquietante e sublime è questa “chiaroscurale” connotazione dell’occhio tenebroso in cui si genera l’immaginazione delle cose, come se fosse un doppio speculare dell’occhio propriamente inteso, deputato a una esatta e mimetica assimilazione della reale visione di esse, per poi ritrasmetterla al “senso comune” (sede dell’anima intellettiva e luogo di convergenza delle percezioni sensoriali). Precisa infatti Leonardo: «O che differenzia è a imaginar tal luce in l’occhio tenebroso, al vederla in atto fuori delle tenebre» (ibid.), volendo significare che la vista può percepire “in atto” (cioè con immediatezza) la luce della verità, mentre l’immaginazione rimane confinata nelle ombre, osservata da quell’occhio interiore calato nell’oscurità della mente.
Questo breve testo riformula uno stralcio del mio volume Leonardo. La natura allo specchio, pubblicato nel 2019 dall’editore fiorentino Mandragora.
Antonio
23 Dicembre 2020 a 15:44
Descrizione sublime professore.